giornaliLa durissima crisi economica che ha preso di mira l’Italia e più in generale l’intero Occidente è stata una delle cause che hanno reso estremamente complicata la vita dell’editoria. Allo stato attuale, infatti, il comparto editoria si sta ritrovando a dover fare i conti con numeri piuttosto deboli e con prospettive tutt’altro che rosee; e la questione riguarda non solo chi scrive e chi pubblica, ma un po’ tutto l’indotto che va dai giornalisti ai poligrafici, dalle cartiere ai distributori, fino a grafici, tipografie, edicole e librerie.

Una situazione, dunque, piuttosto sconfortante, e che diventa ancor più tale dal momento in cui non c’è neppure un serio intervento pubblico capace di imprimere un’inversione di marcia. Oggi giorno, l’intervento pubblico destinato al mondo dell’editoria è passato dai circa 700 milioni di euro che venivano elargiti nel 2004 ai 100 milioni scarsi di oggi. Un’indagine condotta da Ramsus Klein Nielsen con Geert Linneback, dell’Università di Oxford, mostra chiaramente come “il valore pro capite dell’aiuto pubbico ai media, in Finlandia, Germania e Regno Unito, supera di molto il valore dei contributi italiani”.

La Columbia School of Journalism ha diffuso un rapporto intitolato “The reconstruction of American journalism” che fa emergere un dato eloquente: gli Stati Uniti d’America sostengono i media per una spesa che equivale a 3,5 dollari per cittadino, mentre in Canada, Austria e Germania si spendono 25 dollari pro capite; in Giappone 60, in Gran Bretagna 80, mentre in Danimarca e Finlandia la spesa è di ben 100 dollari per cittadino.

Tuttavia non si deve pensare che soldi a pioggia siano l’unica soluzione per tenere in vita il mondo dell’informazione e dell’editoria. In Gran Bretagna, per esempio, il governo ha pubblicato, ormai qualche anno fa, un importante rapporto che analizza l’impatto della banda larga sul modo di informarsi dei cittadini, e la conclusione è stata la seguente: “Il governo ritiene che il solo mercato non sia in grado di dare voce ad un corretto pluralismo. Il modello commerciale continuerà a giocare un ruolo di forza, ma va sempre integrato con dei modelli alternativi: media comunitari, proprietà locali, organizzazioni no profit”. In pratica, il governo inglese si è impegnato non solo a finanziare l’informazione, ma anche a supervisionare sul pluralismo.

La questione, però, è che non è detto che destinare fondi pubblici all’editoria sia sempre la soluzione più giusta. In Italia, per esempio, il sostegno pubblico che veniva garantito fino a qualche anno fa ha finito per creare una gran confusione nel sistema e per mettere in discussione persino quel pluralismo che teoricamente avrebbe dovuto ricevere una mano.

Certo è che l’informazione, in Italia, è anche difficile da inquadrare e seguire: da un lato ci sono i grandi giornali, quelli di proprietà dei Big dell’industria e della finanza, spesso e volentieri preda di interessi e di simpatie o antipatie politiche; dall’altro ci sono piccoli quotidiani e riviste che nascono spesso su iniziativa di aggregazioni locali, che cercano di fare informazione, di stimolare il dibattito e che aiutano anche parecchi giovani ad inserirsi nel mondo del giornalismo. E’ su questi ultimi che bisogna concentrare sforzi e risorse se davvero si vuol tutelare la vera informazione.

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